Antonella Sabatini, la necessità di dimenticarci per ri-creare

Un paesaggio lunare delimitato da suoni remoti, echi ancestrali di un tempo interiore. Le installazioni della fanese Antonella Sabatini sono, come li definisce la stessa artista, “un percorso di dimenticanza”: del dolore e dell’illeggibilità del passato, con un presente sospeso e, forse, la promessa di un futuro finalmente libero da sovrastrutture. 

I bianchi oggetti in terracotta, diversi da loro solo per l’apertura in cima, una bocca rivolta al mondo certo, ma anche un simbolo di maternità, parlano di noi. Delle nostre ferite, di come sia necessario dar forma alla nostra vita e di quanto sia importante riempire questo vuoto cosmico. E in questo naufragare al di là del tempo, la mente va a Bruce Chatwin e alle sue “Vie dei canti” in cui la realtà (qui segnata più che dagli oggetti dalle fotografie a lato che ne scandiscono la loro verità, in altra prospettiva) è “scoperta” dai canti degli aborigeni. 

“Oggi più che mai gli uomini dovevano imparare a vivere senza gli oggetti. Gli oggetti riempivano gli uomini di timore: più oggetti possedevano, più avevano da temere. Gli oggetti avevano la specialità di impiantarsi nell’anima, per poi dire all’anima che cosa fare” scrive l’inglese nel suo capolavoro. E infatti quelli della nostra artista sono oggetti basici, elementi ancestrali.

E’ proprio in questa dismissione, che è ritorno alla forma essenziale ripetuta all’infinito, che cogliamo il senso più profondo dell’opera di Sabatini. Una ri-creazione (e infatti gli oggetti disposti uno accanto all’altro proiettano nel muro lo skyline di una città). Una ripartenza da nomadi, in cui l’incertezza ha un ruolo chiave. 

Non sarà semplice: nonostante gli oggetti siano bianchi e scintillanti il paesaggio è indefinito. E’ la nostra grande notte. Il riferimento è anche ai tempi che viviamo.

L’artista marchigiana è riuscita, sottraendo e limando il superfluo, a creare una materia viva: in fondo, sottolinea, siamo esseri vuoti, “se non abbiamo un specchio di fronte non ci siamo, manchiamo”. Insomma, dobbiamo ridisegnare i nostri paesaggi interiori. Ma, attenzione, senza certezze, e anche senza troppe speranze. Ma quel mondo nuovo e sospeso è lì davanti a noi: esserci dimenticati di noi forse è valso a qualcosa. (Antonella Sabatini, “Lavatoio delle preghiere – fotoscultura e discioglimento”, in via Zonco 45 a Pesaro fino a domani)

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