Fellini. Ditemi tutto ma non chiamatemi mito

Fare il regista? “Mi pare di aver avuto la grande fortuna di poter continuare a giocare, come quando lo facevo sotto la scrivania di mio padre, mentre lui, sopra, scriveva i conti in quei grandi libri mastri e io lì sotto con le forbici, la colla, i colori, l’ago e il filo preparavo una nuova marionetta”.

Federico Fellini, come ce lo racconta Emilia Costantini, nel ricordo di un’intervista di quarant’anni fa, il “mito”. Ma guai a dirglielo. “Io mito? Lei si rende conto dell’imbarazzo in cui mi precipita essere obbligato a darle una risposta e a parlare di me come un mito?”.

Il regista chiosò poi: “Mi hanno detto che ero uno svogliato, un fannullone indeciso, un bugiardo, un pessimo studente, un confusionario sfaticato… Questa faccenda del mito mi trova impreparato totalmente. Ho accettato tutte le altre definizioni, ma questa del mito mi sembra la più insultante, faccio fatica ad accettarla e non perdo tempo a cercare di definirmi, non ne comprendo il vantaggio. Questi rendiconti si risolvono sempre sotto l’aspetto fallimentare, sono inutili, evito di guardami allo specchio metaforico. Sono troppo occupato col mio lavoro. Mi riconosco solo in uno che ama il proprio lavoro e che non posso nemmeno chiamare lavoro”.

Il suo segreto era il lavoro “fare fare fare”, ma “con la realtà mediata dalle sue verità” e dalle innocue bugie di cui era campione. Umile, senza ambizioni di denaro o di essere presuntuoso, si considerava un privilegiato. “La soddisfazione è un problema che non mi pongo: uno soddisfatto di se stesso è imbalsamato. Bisogna essere continuamente insoddisfatti”.

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