Il boss, i fiancheggiatori, l’omertà. Una storia già vista

Uno dei pochi che non ha visto le immagini della cattura del mafioso più ricercato d’Italia è stato proprio lui. Matteo Messina Denaro, l’uomo capace di sciogliere nell’acido un dodicenne figlio di un pentito, il piccolo Giuseppe Di Matteo, il capo dei capi che ha gestito la Cupola per trent’anni senza immischiarsi negli affari dei singoli clan, l’erede di Totò Riina, non ha nessuna attenzione a quella tv che ha nella cella tre metri per quattro nel supercarcere di L’Aquila.

Oggi è un malato alla stato terminale, a cui rimane poco da vivere ma forse molto da raccontare. Se vorrà, quando vorrà. I tre covi segreti che inquirenti e polizia hanno subito individuato a Campobello di Mazara sembrano abbiano poco da raccontare su questi trent’anni di latitanza del boss, a parte i gioielli e gli abii di lusso che amava indossare. E’ là che viveva da comune cittadino, uscendo, facendo la spesa e andando al bar, e appare incredibile che nessuno lo abbia mai riconosciuto.

E’ in questa omertà che stanno indagando le forze dell’ordine in queste ore, una rete di fiancheggiatori di cui si sanno già i primi nomi, a partire da chi gli ha prestato l’identità, Andrea Bonafede. Messina Denaro ha fatto per lunghissimo tempo la vita di tutti: il selfie con un dottore della clinica La Maddalena di Palermo dove è stato arrestato sono l’esempio dell’impunità di cui si è convinto, nel tempo, questo criminale. Tantissimo tempo. Esattamente trent’anni dopo la cattura di Totò Riina, la sua libertà del superlatitante Matteo Messina Denaro è finita in un giorno di gennaio.

Non terminano intanto gli echi delle polemiche su un presunto accordo tra il boss, che verosimilmente vuole trascorrere gli ultimi mesi della sua vita tranquillo in una cella invece di nascondersi, e lo Stato. Una affermazione azzardata, allo stato attuale delle cose, priva di ogni fondamento.

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