Se me lo dicevi prima. Enzo Iannacci, dieci anni dopo

Ce li vedete insieme, in una sala operatoria, Enzo Iannacci e Christian Barnard? Eppure il cantante – di notte, di giorno faceva il medico – e l’autore del primo trapianto cardiaco al mondo, questa cosa in Sudafrica l’hanno fatta. Il più eccentrico dei geni italiani, il figlio del Derby di via Monte Rosa, il locale di cabaret da cui uscirono tutti, se n’è andato esattamente dieci anni fa, lasciando un vuoto incolmabile (“hai presente un canotto mordicchiato da un dobermann?”), di milanesità e intelligente follia. Il verso tra parentesi ce lo ha prestato lui, è nella celebre “Son scioppàa”.

Scoppiato e anticipatore della realtà, ma con un’ironia sottile, colta e tutta sua che lo faceva appartenere al mondo più che alla sola Italia. Autore di classici che sono rimasti nella storia della musica come “Vengo anch’io, no tu no”, “Mexico e Nuvole”, “Vincenzina e la fabbrica”. Lui, nobile postura, eccelsi testi, ma “casciavit”, della Milano operaia, figlio delle nebbie e delle solitudini, della fatica e della lambretta.

Un docufilm, un nuovo spettacolo teatrale, un disco con inediti: saranno in molti a ricordarlo, compreso il figlio Paolo in un concerto-racconto, “Ecco tutto qui”. Il campione dell’umorismo, a volte non-sense, il paladino dei diritti (“Silvano”) e dei deboli, in realtà non se n’è mai andato e ci aspetta al solito bar. “Dammi una sigaretta… Oh… Non fare come gli altri quando gli chiedi mille lire ti rispondono: mi raccomando, non se le beva eh…”.

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